Dal
campo base, dove ci aveva scaricato un minuscolo aereo con gli sci al posto
delle ruote, giungemmo dopo vari giorni di marcia al campo 5, l’ultimo. Ci inerpicavamo con le pelli di foca, legati in
cordata, ognuno tirando la sua maledetta slitta carica all’inverosimile.
Lo scopo era quello di ispezionare l’intero percorso
almeno fino al Denali Pass, sopra il campo 5; e di montare ai campi intermedi
le tende che avrebbero accolto gli incaricati dell’assistenza
e che in ogni modo sarebbero potute servire come riparo per l’atleta
in caso di maltempo durante il tentativo. Raggiunto il campo 5, la squadra si
divise in due gruppi. Jean e Daniel ritornarono al campo base in attesa del
giorno ideale per il tentativo. Noi altri quattro ci fermammo per il momento al
campo 4 a 4300 metri di quota, in una posizione protetta dalle intemperie e
tale da permettere il contatto radio con il campo base.
Cominciammo
a razionare il cibo: barretta + minestrina + pezzo di parmigiano di dimensioni
minuscole + 1,5 litri di liquido, questo era il nostro pasto-tipo. L’insufficienza dell’apporto calorico
ci faceva patire più
freddo del dovuto. Al l’interno delle tendine, il cibo
divenne l’argomento ossessivo di conversazione. La
luminescenza delle aurore boreali faceva da contrappunto ai lamenti di Filippo
che, da bravo ligure, magnificava nostalgicamente le virtù della cucina
della sua regione. Il fantasma di Adolphus Greely cominciò ad annidarsi
nei nostri sonni1. L’illusoria sfera del
benessere, di ciò
che noi diamo per scontato e acquisito definitivamente, si dissolse in fretta:
il conflitto con la fame, non quello con la pancia troppo piena, tornava a
rappresentare anche per noi la norma. E per di più le privazioni non
erano controbilanciate da possibili consolazioni. Nessuno poteva tentare la
salita in vetta come obiettivo personale, perché ogni giorno di bel
tempo avrebbe potuto essere quello del record.
La
grande difficoltà
è
sempre quella di individuare con anticipo il giorno con le condizioni
meteorologiche adatte: nel caso di un record, il team di supporto deve poter
organizzare al meglio i punti di assistenza, anche in prossimità della vetta.
Ma nel nostro caso, le previsioni meteo locali –
elaborate e fornite dai Ranger del Parco Nazionale –
erano, per usare un eufemismo, abbastanza imprecise. Noi, membri della squadra
di assistenza, ci eravamo già
disposti a vuoto in un caso: partiti un giorno prima del tentativo, sistemati
nei vari campi, eravamo dovuti rientrare al campo 4 con spreco di energia e
calorie per l’arrivo del maltempo.
Valanga!
Avvolti
nei sacchi a pelo, attendevamo una nuova possibilità, sdraiati
giorno e notte in tendine troppo basse per starci in piedi. Fuori bufera e
temperature polari. Razionamento del cibo, fame, freddo e attesa infinita di
una finestra di bel tempo. Questa era la situazione al campo 4 dopo circa
cinque giorni. Filippo ci paragonava agli opliti delle Termopili: capaci di
mantenere la posizione nonostante i sacrifici. Scherzava, ma come è noto il motto
di spirito esprime la percezione profonda degli eventi. Quel poco di resilienza
che avevamo ci servì.
Anche perché
il malumore cominciava a serpeggiare e a dividere il gruppo in due fazioni
nettamente contrapposte: quelli che stavano su, al campo 4, e quelli che
stavano giù,
al campo base.
Quelli
sopra, stufi dell’estenuante attesa, non vedevano l’ora che il tentativo di record avesse luogo: era l’unico modo per tirarsi fuori da quella situazione di noia,
abulia, fame e vaga inquietudine. Per quelli del campo base le condizioni
giuste per il tentativo non si erano ancora presentate; e tentare un record con
molta neve fresca sul percorso e tempo instabile sarebbe stato come sparare a
vuoto l’ultima cartuccia. Per quelli sopra, i compagni
del campo base erano diventati, secondo una sintetica definizione fra quelle più ripetibili, “dei rompicoglioni
egoisti che non hanno idea di che inferno sia qui e che si illudono ad
aspettare una finestra meteo ideale che non arriverà mai”. Per quelli
sotto, noi del campo 4 eravamo invece “dei rompicoglioni
egoisti che non sono disposti a fare un minimo di sacrificio e che pensano solo
a tornarsene a casa, e per questo vorrebbero che sprecassimo un’occasione unica in modo avventato”.
Insomma,
chi era sopra minimizzava l’aspetto meteo, enfatizzava
i disagi e premeva affinché
“ci
si desse una mossa”.
Chi era sotto frenava, sottolineando i limiti delle condizioni meteo, e
sminuiva i disagi altrui chiedendo di attendere ancora. L’aver
lavorato poco sul gruppo, dando per scontate delle buone relazioni di base,
cominciava a far sentire i suoi effetti. A questa situazione conflittuale si
aggiunse un problema di comunicazioni. Le radio in nostro possesso si stavano inesorabilmente
scaricando, anche a causa del freddo polare che abbatteva la carica delle
batterie. Appena il sole faceva capolino noi provavamo a ricaricarle con i
pannelli solari. Ma il sole era troppo mite e il tempo di esposizione troppo
breve: l’unico risultato tangibile era di rallentare un
pochino l’inevitabile crollo delle batterie. Per questo
si era deciso da subito – appena i due gruppi si erano
divisi – di razionare non solo il cibo, ma anche le
comunicazioni. Uno scambio di parole a inizio giornata, e uno alla sera prima
di coricarsi. O meglio, prima di dormire: visto che coricati nei sacchi a pelo
si stava comunque tutto il giorno. Fu allora che diventammo a nostra insaputa
protagonisti di un esperimento di psicologia sociale. Un illuminante studio
sulla comunicazione. In effetti la nostra situazione poteva essere concepita
come uno straordinario laboratorio in cui due gruppi sotto stress e in conflitto
tra loro avevano la possibilità
di comunicare in modo estremamente ridotto. Ciò che il nostro “esperimento” ci ha
permesso di verificare è
che una comunicazione rarefatta, poco frequente, carente, lascia spazi vuoti
che, al l’interno dei gruppi, favoriscono la creazione
di “fantasmi”, ovvero di
interpretazioni della realtà
scarsamente basate sui fatti, e spesso a sfondo paranoico2.
L’esempio emblematico è rappresentato da un
episodio preciso: proprio a causa del rarefatto livello di comunicazione un
gesto altruistico venne interpretato come un atto di aperta ostilità. In uno dei
rari momenti di sole tra una perturbazione e l’altra al
campo 4, approfittammo per uscire dai sacchi a pelo e sgranchirci le gambe.
1
Adolphus Greely, esploratore polare e ufficiale del l’esercito
americano, fu il comandante della tragica spedizione polare della nave Proteus (1881-1884).
Quando la terza spedizione di soccorso riuscì finalmente a
raggiungere la Proteus
a Cape Sabine, nel l’estremo nord canadese, diciannove
dei venticinque uomini erano morti di fame. Quasi subito, al ritorno dei
superstiti negli Stati Uniti, si diffusero voci di cannibalismo da parte dei
sopravvissuti. Greely stesso, insignito della Medal of Honor, e i suoi compagni
smentirono sempre vigorosamente queste dicerie. Tuttavia, in uno studio recente
due scienziati polacchi (J.M. We˛sławski
e J. Legez˙yn′ska, Chances for Arctic Survival:
Greely’s Expedition Revisited, in Artic,
55, 2002, pp. 373-379) hanno dimostrato, recandosi sul posto e alimentandosi
con i crostacei come avevano fatto i sopravvissuti, che costoro non ce l’avrebbero fatta senza che nella dieta quotidiana
comparissero calorie da altre fonti. La locuzione “nella dieta
comparvero altre fonti caloriche”
è
un elegante modo per dire che gli studiosi ritengono fortemente probabile il
fatto che si mangiarono i compagni.
2
In questo contesto il termine .paranoico. – anche se
non fa riferimento alla paranoia come patologia psichiatrica –
vuole indicare interpretazioni dei comportamenti altrui in chiave di
persecuzione, odio e attacco nei propri confronti che tutti più o meno occasionalmente
diamo.