Nel 2008 andammo sul Denali con
un obiettivo sportivo: supportare il tentativo di record di Jean Pellissier di
salire e scendere la montagna nel tempo più veloce possibile. Il record non
riuscì per vari motivi e la vicenda l’ho raccontata nel libro “Perseverare è
umano”. Personalmente rientrai a casa arricchito da alcune intuizioni sul
funzionamento dei gruppi sotto stress (stare quindici giorni sdraiato in una
tendina sballottata dal vento ad aspettare le condizioni ideali per il record è
molto stressante e logora i rapporti interpersonali); e anche più consapevole
degli aspetti animali della natura umana (l’attesa aveva comportato il
razionamento dei viveri e risvegliato le zone più antiche e meno civilizzate
del cervello rettiliano).
Ma, soprattutto me ne tornai
fulminato dall’incontro con la Natura nella sua veste più potente e selvaggia,
generatrice di emozioni destabilizzanti. Pur avendo avuto la fortuna di vedere
le Alpi, le Ande e l’Himalaya – non c’è mai stato nulla che mi abbia dato il
senso della mia finitezza come l’Alaska. L’Everest o gli altri 8.000 sono
immensi, senza dubbio; ma mi sono apparsi come dei giganti che svettano inseriti
però in un contesto meno severo. L’Alaska in generale – e l’Alaska Range (la
catena montuosa centrale) in particolare- hanno invece il potere di farti
dubitare sul fatto che l’uomo sia il padrone del pianeta. Ammesso che lo sia in
quanto specie, certo non si sente tale a livello individuale quando l’aeroplanino
che l’ha depositato fortunosamente in mezzo ai ghiacciai decolla e se ne va. Il
gelo, il vento, le valanghe e i brontolii sinistri dei ghiacciai ti ricordano
continuamente che- chiunque fossi nel mondo umano –qui non sei niente.
Questo non vuol dire che la
montagna sia difficile tecnicamente. Per lo meno non lo è in modo particolare, per quanto riguarda
la nostra via attuale di salita, la West Buttress (che è anche la stessa del
tentativo di record del 2008).
L’altitudine del Denali è tutto sommato
modesta (6200 metri) rispetto ai giganti himalaiani. Ma l’ambiente è
estremamente severo e offre grosse difficoltà di tipo logistico. Mi spiego
meglio: la severità dell’ambiente si esprime nella brutalità delle temperature
dovute alla vicinanza con il circolo polare artico (in estate, in alto si
possono verificare
temperature intorno ai meno quaranta), nell’imprevidibilità meteo e nelle
bufere improvvise che si scatenano con venti fortissimi. Nel 2008, al campo 5
abbiamo perso una tenda d'alta quota letteralmente sparita nel nulla, spazzata
via dalle raffiche.
Cos'è? Un orologio appeso all'abside della tenda. Più che misurare il tempo fornisce una chiara indicazione delle temperature dentro alle tende.
Ovviamente non c’erano occupanti.
La logistica è problematica perché le spedizioni devono trasportare tutto il
loro carico (cibo, tende, combustibile etc..) man mano che salgono: non ci sono
né yak, né sherpa. Ciò significa che il carico è per forza di cose limitato; e
di conseguenza viene limitata anche l’autonomia in termini di giorni di
permanenza, poiché quando il cibo o il combustibile che alimenta i fornelli
termina si deve fare dietro-front.
Inoltre l’alpinismo alaskiano è
generalmente molto più duro –in termini di stress personale- di quello
himalaiano: si sta infatti sempre sul ghiacciaio (i campi –base compreso- non
sorgono su morene o terreno asciutto) e le limitazioni del carico non
permettono di portare tende mensa o tende collettive. Quindi si vive e si
cucina all’esterno, con qualsiasi tempo faccia. Le piccole tende servono solo
per dormire o per restarvi chiusi durante il maltempo (cosa qui molto più
frequente che altrove).