Sgomberammo
le tende dagli accumuli di neve caduta che rischiavano di farle crollare, poi
passammo a ripulire le slitte e i materiali che rimanevano fuori dall’accampamento. Fu qui che ci imbattemmo in un paio di
scarponi protetti sotto una delle slitte rovesciate. “Sono quelli di
Jean”
disse qualcuno. In effetti erano proprio i suoi. Jean era sceso al campo base
cinque giorni prima e aveva lasciato al campo 4 parte del suo materiale per non
scendere trainando dietro di sé
la slitta, con il rischio conseguente di finire trascinato in un crepaccio o giù da un pendio.
Facemmo due conti e capimmo che da vari giorni Jean si trovava al campo base
con gli scarponi da sci ai piedi. Infatti tutti avevamo con noi – per ottimizzare il peso da trascinare –
solo due paia di scarponi: quelli normali e quelli da sci. Cominciammo a
pensare che per i piedi di Jean la vita al campo base doveva essere ben poco confortevole;
e che correva il rischio di ritrovarsi con le vesciche ai piedi proprio in
vista del record.
Perciò decidemmo di
fargli avere gli scarponi più
confortevoli. Uno di noi li avrebbe portati al campo 3 che lui poteva
raggiungere abbastanza agevolmente in allenamento dal campo base. Si trattava,
tutto sommato, di un gesto altruistico. In fondo, per scendere dal campo 4 al 3
e risalire ci avremmo impiegato quasi una giornata. Tra andata e ritorno erano
oltre 9 chilometri e 1000 metri di dislivello in mezzo a crepacci e slavine.
Insomma, nulla di straordinario ma neppure una passeggiata. Il sorteggio designò me quale “corriere”. Scesi,
lasciai gli scarponi e tornai. La sera – in occasione
del contatto radio – informammo Jean che i suoi
scarponi erano stati portati al campo 3. Ma Jean interpretò il nostro
gesto come una pressione a tentare il record, come se stessimo già sgomberando
il campo!
Nei
gruppi, i “non
detti”,
cioè
tutte le interpretazioni e le convinzioni che non vengono esplicitate e
sottoposte all’esame di realtà, producono
tossine. Quando abbassiamo il livello di comunicazione in termini di quantità e di qualità, i “non detti” acquisiscono
forza e vigore in maniera esponenziale. Si tratta di un pericolo insito in
particolare in tutte le nuove tecnologie comunicative. Pensiamo alle email. Le
email rappresentano uno strumento che priva la comunicazione di tutto l’aspetto non verbale da cui normalmente ricaviamo una gran
quantità
di informazioni, che sono essenziali per l’interpretazione
corretta del messaggio. Se per esempio riceviamo un messaggio email con il
nostro nome scritto con l’iniziale minuscola, oppure
senza saluti, ci chiederemo immediatamente se l’omissione
è
intenzionale, oppure se è
scherzosa o se è
semplicemente frutto di una disattenzione generata dalla fretta. Essendo privi
delle informazioni veicolate dalla comunicazione non verbale, la scelta dell’interpretazione diventa difficile. Non a caso oggi si tende
a inserire nelle email degli strumenti di supporto alla corretta decodifica: gli
emoticon, che in fondo non sono altro che dei surrogati della comunicazione non
verbale che è
venuta a mancare.
Anche
l’antica lettera cartacea presentava gli stessi limiti;
tuttavia la lentezza di quella forma di comunicazione garantiva che il
messaggio fosse sufficientemente meditato –e quindi che
fossero esclusi gli errori dovuti alla fretta. Inoltre, sempre la lentezza del
mezzo consentiva di prendere distanza dalle emozioni che il messaggio
veicolava. Oggi tutto è
accelerato. Non si riesce in alcun modo a distanziarsi dalle emozioni. Una
semplice email al l’interno di un’organizzazione
può
diventare la miccia che innesca dei forti conflitti se chi riceve il messaggio
lo interpreta “male”.
Occorre
di conseguenza che le persone si prendano la responsabilità della
comunicazione. Bisogna essere sicuri non solo che il messaggio sia stato
ricevuto, ma anche compreso in modo corretto. L’atteggiamento
dell’”io
la mail gliel’ho mandata, che si arrangi” non basta più, se si vuole
creare un ambiente organizzativo che sostenga le motivazioni. E comunque la
comunicazione “face-to-face” va permessa e
incoraggiata il più
possibile. Più
la comunicazione è
ricca, minore sarà
il rischio di essere fraintesi. In Alaska il livello di comunicazione era
ridotto in modo drammatico dalla situazione logistica. Sul Denali i “non detti” – ciò
che non veniva chiarito – finivano per diventare simili
a uno dei pericoli più
letali presenti in quell’ambiente: prendevano la forma
di una valanga che aumentava di potenza man mano che cadeva, alimentando il
conflitto e spazzando via tutte le relazioni. Far finta di niente, non
affrontare i temi “scottanti”, evitare di
parlare di cose potenzialmente fastidiose, sono comportamenti diffusi in molti
gruppi per cercare di evitare le frizioni. In realtà questi
comportamenti ottengono l’effetto contrario: aumentano
i conflitti e demotivano le persone. Solo alzando il livello della
comunicazione si previene la creazione dei “fantasmi”. Ma una volta
che questi ci sono e girano al l’interno del gruppo, l’unico mezzo per debellarli sta nel diffondere una cultura
organizzativa che accetti e promuova lo scontro costruttivo: cioè il confronto,
anche deciso, sulle idee, ma che si astiene sempre dallo scendere sul piano
personale. Esperienze effettuate in molte aziende dimostrano che la cultura
dello scontro costruttivo non abbassa, ma innalza la performance del gruppo.*
Ma
torniamo alla nostra storia. Finalmente, il tentativo ebbe luogo: partito
intorno alle 7 del mattino dal campo base a circa 2200 metri, Jean raggiunse il
campo 4 (4300 metri) in tre ore e mezzo. Per inciso, gli alpinisti normali impiegano
tre giorni. Un tempo straordinario, velocissimo, forse fin troppo veloce. Da
qui Jean ha abbandonato gli sci per procedere a piedi lungo un ripido pendio di
ghiaccio e lungo l’esposta cresta che porta al campo 5
a quota 5200 metri. Dal campo 5 in poi Jean ha cominciato a pagare in termini
di fatica cocente la velocità
eccessiva tenuta fino a quel momento; e in alto si è
improvvisamente alzato un vento molto forte. Jean è giunto al
Denali Pass, il varco che incanala e amplifica i venti gelati provenienti dalle
distese della Siberia. La sofferenza si è fatta ancora più forte, il passo
più
lento. Qui è
diventato determinante un fatto avvenuto al campo 4: lì Jean aveva
deciso di sbarazzarsi della
ricetrasmittente,
nonostante le mie obiezioni documentate dalle riprese della telecamera fissa.
(Mi sono sempre comunque sentito corresponsabile di questa follia. Forse avrei
dovuto impormi, ma avevo valutato che stressare ulteriormente un atleta già al limite non
fosse una buona idea.) Lasciare la radio fu una grave leggerezza, compiuta per
risparmiare un peso di poco superiore al chilo. Mentre Jean era in crisi al Denali
Pass, Patrick e Alain, le due guide
che lo
attendevano nelle vicinanze della vetta, si sono preoccupate. A questo punto
Jean era molto in ritardo rispetto ai tempi previsti. Non avendolo a vista, non
potendo sentirlo alla radio, hanno cominciato a scendere per cercarlo pensando
a un malore o peggio ancora. Nel frattempo il vento era aumentato e il freddo
stava scaricando anche le loro radio rendendo l’intera
situazione potenzialmente catastrofica. Quando Jean fu finalmente raggiunto, erano
passate circa sette ore dalla partenza e la vetta non distava più di due ore e
mezzo: Jean era quindi in condizione per battere ampiamente il record di
Kellogg. Tuttavia, valutata la situazione nel complesso –
venti fortissimi, atleta sfinito e radio scariche – i tre
decisero di fare dietrofront, convinti di poter effettuare un secondo tentativo
nei giorni successivi. Il Creatore di Tempeste non ha poi permesso che questo
secondo tentativo venisse realizzato: con il tempo stabilmente al brutto, ha
costretto la squadra ad attendere e poi a ritirarsi al campo base quando ormai non
c’era più né cibo né combustibile.
Il maltempo ha fatto slittare di qualche giorno anche l’atterraggio
dell’aereo che ci doveva prelevare. Ma il maltempo, in
Alaska, è
una presenza fissa, prevedibile. Attribuirgli il fallimento del record sarebbe
troppo facile. Il record non è
stato conseguito perché
la spedizione era stata organizzata in modo troppo frettoloso, senza un
adeguato lavoro di costruzione del gruppo e delle relazioni all’interno. E’
bastato un problema comunicativo per deteriorare le relazioni tra i membri. Le
persone si sono demotivate e il livello di stress nel gruppo è cresciuto. Ne
ha fatto le spese l’atleta, l’anello
più
esposto. Una partenza così
veloce e forsennata è
il segno – a mio parere – di
una perdita di controllo e di lucidità. La scelta di non
prendere con sé
la radio conferma questo sospetto. A poco è servita a consolarci
la decorazione con cui la squadra è stata insignita dal Corpo
dei Ranger americani per “l’attenzione dimostrata agli aspetti di sicurezza durante la
spedizione”.
* Kathleen M. Eisenhardt et al., How Teams Have a Good Fight, in Harvard Business
Review, 1997.