giovedì 21 aprile 2016

Termopili di ghiaccio: la cronaca del tentativo di record del 2008 (fine)

Sgomberammo le tende dagli accumuli di neve caduta che rischiavano di farle crollare, poi passammo a ripulire le slitte e i materiali che rimanevano fuori dallaccampamento. Fu qui che ci imbattemmo in un paio di scarponi protetti sotto una delle slitte rovesciate. Sono quelli di Jean disse qualcuno. In effetti erano proprio i suoi. Jean era sceso al campo base cinque giorni prima e aveva lasciato al campo 4 parte del suo materiale per non scendere trainando dietro di sé la slitta, con il rischio conseguente di finire trascinato in un crepaccio o giù da un pendio. Facemmo due conti e capimmo che da vari giorni Jean si trovava al campo base con gli scarponi da sci ai piedi. Infatti tutti avevamo con noi per ottimizzare il peso da trascinare solo due paia di scarponi: quelli normali e quelli da sci. Cominciammo a pensare che per i piedi di Jean la vita al campo base doveva essere ben poco confortevole; e che correva il rischio di ritrovarsi con le vesciche ai piedi proprio in vista del record.
Perciò decidemmo di fargli avere gli scarponi più confortevoli. Uno di noi li avrebbe portati al campo 3 che lui poteva raggiungere abbastanza agevolmente in allenamento dal campo base. Si trattava, tutto sommato, di un gesto altruistico. In fondo, per scendere dal campo 4 al 3 e risalire ci avremmo impiegato quasi una giornata. Tra andata e ritorno erano oltre 9 chilometri e 1000 metri di dislivello in mezzo a crepacci e slavine. Insomma, nulla di straordinario ma neppure una passeggiata. Il sorteggio designò me quale corriere. Scesi, lasciai gli scarponi e tornai. La sera in occasione del contatto radio informammo Jean che i suoi scarponi erano stati portati al campo 3. Ma Jean interpretò il nostro gesto come una pressione a tentare il record, come se stessimo già sgomberando il campo!
Nei gruppi, i non detti, cioè tutte le interpretazioni e le convinzioni che non vengono esplicitate e sottoposte allesame di realtà, producono tossine. Quando abbassiamo il livello di comunicazione in termini di quantità e di qualità, i non detti acquisiscono forza e vigore in maniera esponenziale. Si tratta di un pericolo insito in particolare in tutte le nuove tecnologie comunicative. Pensiamo alle email. Le email rappresentano uno strumento che priva la comunicazione di tutto laspetto non verbale da cui normalmente ricaviamo una gran quantità di informazioni, che sono essenziali per linterpretazione corretta del messaggio. Se per esempio riceviamo un messaggio email con il nostro nome scritto con liniziale minuscola, oppure senza saluti, ci chiederemo immediatamente se lomissione è intenzionale, oppure se è scherzosa o se è semplicemente frutto di una disattenzione generata dalla fretta. Essendo privi delle informazioni veicolate dalla comunicazione non verbale, la scelta dellinterpretazione diventa difficile. Non a caso oggi si tende a inserire nelle email degli strumenti di supporto alla corretta decodifica: gli emoticon, che in fondo non sono altro che dei surrogati della comunicazione non verbale che è venuta a mancare.





Anche lantica lettera cartacea presentava gli stessi limiti; tuttavia la lentezza di quella forma di comunicazione garantiva che il messaggio fosse sufficientemente meditato e quindi che fossero esclusi gli errori dovuti alla fretta. Inoltre, sempre la lentezza del mezzo consentiva di prendere distanza dalle emozioni che il messaggio veicolava. Oggi tutto è accelerato. Non si riesce in alcun modo a distanziarsi dalle emozioni. Una semplice email al linterno di unorganizzazione può diventare la miccia che innesca dei forti conflitti se chi riceve il messaggio lo interpreta male.
Occorre di conseguenza che le persone si prendano la responsabilità della comunicazione. Bisogna essere sicuri non solo che il messaggio sia stato ricevuto, ma anche compreso in modo corretto. Latteggiamento dellio la mail glielho mandata, che si arrangi non basta più, se si vuole creare un ambiente organizzativo che sostenga le motivazioni. E comunque la comunicazione face-to-face va permessa e incoraggiata il più possibile. Più la comunicazione è ricca, minore sarà il rischio di essere fraintesi. In Alaska il livello di comunicazione era ridotto in modo drammatico dalla situazione logistica. Sul Denali i non detti ciò che non veniva chiarito finivano per diventare simili a uno dei pericoli più letali presenti in quellambiente: prendevano la forma di una valanga che aumentava di potenza man mano che cadeva, alimentando il conflitto e spazzando via tutte le relazioni. Far finta di niente, non affrontare i temi scottanti, evitare di parlare di cose potenzialmente fastidiose, sono comportamenti diffusi in molti gruppi per cercare di evitare le frizioni. In realtà questi comportamenti ottengono leffetto contrario: aumentano i conflitti e demotivano le persone. Solo alzando il livello della comunicazione si previene la creazione dei fantasmi. Ma una volta che questi ci sono e girano al linterno del gruppo, lunico mezzo per debellarli sta nel diffondere una cultura organizzativa che accetti e promuova lo scontro costruttivo: cioè il confronto, anche deciso, sulle idee, ma che si astiene sempre dallo scendere sul piano personale. Esperienze effettuate in molte aziende dimostrano che la cultura dello scontro costruttivo non abbassa, ma innalza la performance del gruppo.*
Ma torniamo alla nostra storia. Finalmente, il tentativo ebbe luogo: partito intorno alle 7 del mattino dal campo base a circa 2200 metri, Jean raggiunse il campo 4 (4300 metri) in tre ore e mezzo. Per inciso, gli alpinisti normali impiegano tre giorni. Un tempo straordinario, velocissimo, forse fin troppo veloce. Da qui Jean ha abbandonato gli sci per procedere a piedi lungo un ripido pendio di ghiaccio e lungo lesposta cresta che porta al campo 5 a quota 5200 metri. Dal campo 5 in poi Jean ha cominciato a pagare in termini di fatica cocente la velocità eccessiva tenuta fino a quel momento; e in alto si è improvvisamente alzato un vento molto forte. Jean è giunto al Denali Pass, il varco che incanala e amplifica i venti gelati provenienti dalle distese della Siberia. La sofferenza si è fatta ancora più forte, il passo più lento. Qui è diventato determinante un fatto avvenuto al campo 4: lì Jean aveva deciso di sbarazzarsi della
ricetrasmittente, nonostante le mie obiezioni documentate dalle riprese della telecamera fissa. (Mi sono sempre comunque sentito corresponsabile di questa follia. Forse avrei dovuto impormi, ma avevo valutato che stressare ulteriormente un atleta già al limite non fosse una buona idea.) Lasciare la radio fu una grave leggerezza, compiuta per risparmiare un peso di poco superiore al chilo. Mentre Jean era in crisi al Denali Pass, Patrick e Alain, le due guide
che lo attendevano nelle vicinanze della vetta, si sono preoccupate. A questo punto Jean era molto in ritardo rispetto ai tempi previsti. Non avendolo a vista, non potendo sentirlo alla radio, hanno cominciato a scendere per cercarlo pensando a un malore o peggio ancora. Nel frattempo il vento era aumentato e il freddo stava scaricando anche le loro radio rendendo lintera situazione potenzialmente catastrofica. Quando Jean fu finalmente raggiunto, erano passate circa sette ore dalla partenza e la vetta non distava più di due ore e mezzo: Jean era quindi in condizione per battere ampiamente il record di Kellogg. Tuttavia, valutata la situazione nel complesso venti fortissimi, atleta sfinito e radio scariche i tre decisero di fare dietrofront, convinti di poter effettuare un secondo tentativo nei giorni successivi. Il Creatore di Tempeste non ha poi permesso che questo secondo tentativo venisse realizzato: con il tempo stabilmente al brutto, ha costretto la squadra ad attendere e poi a ritirarsi al campo base quando ormai non cera più né cibo né combustibile. Il maltempo ha fatto slittare di qualche giorno anche latterraggio dellaereo che ci doveva prelevare. Ma il maltempo, in Alaska, è una presenza fissa, prevedibile. Attribuirgli il fallimento del record sarebbe troppo facile. Il record non è stato conseguito perché la spedizione era stata organizzata in modo troppo frettoloso, senza un adeguato lavoro di costruzione del gruppo e delle relazioni allinterno. E bastato un problema comunicativo per deteriorare le relazioni tra i membri. Le persone si sono demotivate e il livello di stress nel gruppo è cresciuto. Ne ha fatto le spese latleta, lanello più esposto. Una partenza così veloce e forsennata è il segno a mio parere di una perdita di controllo e di lucidità. La scelta di non prendere con sé la radio conferma questo sospetto. A poco è servita a consolarci la decorazione con cui la squadra è stata insignita dal Corpo dei Ranger americani per lattenzione dimostrata agli aspetti di sicurezza durante la spedizione.


* Kathleen M. Eisenhardt et al., How Teams Have a Good Fight, in Harvard Business Review, 1997.